di ERMINIA DAEDER

La scelta tra partire e restare è una di quelle in cui ci imbattiamo più di frequente nel corso della nostra vita, spesso si tratta di un rovello legato alla dimensione psicologica, altre volte è una reale questione pratica relativa a una dimensione non privata ma lavorativa, talvolta assume una connotazione corale e sociale, un vero fenomeno di costume che, a seconda del contesto storico, si dilata con ciclicità nel mondo.
Ma in un tarantino, tutte queste accezioni si assorbono e sfumano all’atto della nascita e il dilemma, mi fermo o vado via, diventa il suo indice di Agpar.
Lucrezia Saniva, la protagonista e voce narrante del romanzo “Winday” di Daniela Stallo, edito da Armando editore, in uno dei suoi andirivieni dalla città in cui è nata e ha studiato, Taranto, è fotografa per passione e si arrangia in veste di commessa in una cartoleria a due passi dal Ponte Girevole che unisce il Borgo alla Città vecchia.
Ha in mente un progetto, un libro fotografico sulla attività antiche e scomparse della città, ma, proprio all’inizio della settimana santa, al termine del giovedì della visita dei perdoni ai sepolcri allestiti nelle chiese, e un quarto d’ora prima della mezzanotte, qualcosa di inaspettato e clamoroso interrompe il flusso dei suoi pensieri, dei suoi passi e della vita cittadina.
La mezzanotte del Giovedì Santo a Taranto segna l’ora dell’inizio della Processione dell’Addolorata, che vaga per le strade alla ricerca del Figlio.
Tutta la città l’accompagna, si fa carico del suo dolore, lo assorbe.
Da questo momento la liturgia sarà stravolta e l’evento gravissimo, che ha colpito il “bubbone dell’Ilva”, farà ritardare per la prima volta in assoluto la Processione così amata dai tarantini.
Il binario poliziesco su cui si dirama la trama è sostenuto da due personaggi, uno reale, l’amico del liceo ora vice ispettore di polizia, Rodolfo Iacovelli, e uno evocato dalla protagonista per affinità di umore e anima, il commissario Maigret.
E poi ci sono i vecchi, scarni e attaccati ai negozi e ai cinema del loro passato scomparso, ci sono rivoluzionari dei fine anni Settanta, ci sono magistrati che non sciolgono il cordone ombelicale con la città, ci sono operai strappati dai bracci delle gru, c’è un affresco popoloso e rivelatore del magma su cui si incaglia la vita di Lucrezia.
La prospettiva noir in cui si inserisce tutta la vicenda appare una derivazione naturale per una città che della sospensione è interprete magistrale: sospensione sull’acqua dei due mari, sui suoi fantasmi viventi, sui suoi bambini e adolescenti morti, sul suo respiro strozzato.
Lucrezia ne è impregnata e pure la scrittura di Stallo, è fiato corto che dice mozziconi di nomi, istantanee senza punteggiatura, scarti veloci tra i ricordi passati e i fatti presenti, rapidi movimenti oculari: “nessun sibilo nessun fischio nessun mulinello a mescolare i pensieri”; “ la sera guardo ora l’acqua ora la luce nella casa accanto ora l’insegna al neon della nuova Tamoil”.
Ma altrove il respiro rallenta e plana più meditato, come fa il vento, “Ho preso il vino e sono salita sull’altana (…) Affacciata, annuso la fabbrica. Fumi che li sento da qui, molti dicono che è un’impressione, il puzzo. Insieme, mi prende lo sconforto e sento il peso di chissà che cosa sul cuore.
Questa settimana mette di malumore, i tarantini non aspettano altro l’intero anno e io non ne posso più, di una passione santa trita e ritrita che conosco a memoria”.
Stallo setaccia il primo strato, quello dei record nelle classifiche delle emissioni di benzopirene, degli scenari urbanistici degradati, della “necropoli di torri, muretti e celle, binari per il carico e lo scorrimento. Una città stellata, la Las Vegas dell’acciaio, luci e incendi perpetui” e non si ferma, scende, imbastisce il livello poliziesco e definisce il contesto della città negli anni Settanta, scioglie in un tributo originale alla sua formazione giuridica anche l’oggetto dell’inchiesta, continua a scavare e più in fondo, per arrivare infine a pulire dalla polvere il reperto che cercava.
La malattia della luce che “indugiando nel vento di mare, rivela l’estate”, la malattia dei “corridoi monòtoni di sole”, la malattia della condanna alla solitudine e alla tristezza di cui sono infetti tutti, ogni tarantino, ogni pietra storica della città, ogni soffio della giostra dei venti.
La cura è nella fuga, la cura è nel ritorno.
Chi si ferma non è mai scappato, sa che vivrà in esilio sdoppiandosi in inconsistenti frammenti di appartenenza.
Chi ritorna, sa che non è per nostalgia, per un’ansia del ricordo cercato più vero dalla memoria. Non si fermerà, senza doni portati da lontano.
In questo romanzo troviamo i bordi così sfrangiati e lacerati dell’identità di un luogo, della somiglianza di chi ci nasce, dalla coazione a ripetere di chi l’abbandona.
Ogni tarantino ne sa l’essenza, non tutti sanno però svelarla con la voce evocativa di Daniela Stallo, radicata e straniera figlia di una “Taranto, carogna, madre che non impara, figlia ingrata, finzione d’amante, da lei mi aspetto il meglio, ogni volta mi delude, se mi allontano forse salvo l’amore”.
Erminia Daeder
Winday” di Daniela Stallo, Armando Editore 2022