Sul margine di Maria Allo

Ph, Maria Allo

Una lettura

Il concetto di “margine” implica quello di spazio, di cui il primo costituisce la parte periferica; ma il concetto di margine implica anche una parte altra da sé, suo limite o anelito. Così, per comprendere appieno la portata di questa bella, complessa silloge poetica occorre innanzitutto capire quale sia lo spazio che in essa viene rappresentato, e quale la parte altra da sé con cui l’autrice si confronta; sarà poi necessario capire se questo confronto siavissutoin termini di conflitto e quindi come limite o, viceversa, in termini di opportunità e quindi, fuor di metafora, comepossibilità di sviluppo se non addirittura di rinnovamento del sé. Da ultimo, nell’un caso o nell’altro, si dovrà anche individuare lo strumento a cui la silloge affida il compito di gestire il conflitto o, specularmente, di propiziare questa palingenesi del margine in nuovo spazio, del sé in altro sé.
Lo spazio che l’autrice tratteggia emerge in modo quasi ossessivo nella silloge, e ora è steccato, crocevia, tunnel, labirinto, fenditura;ora rivolo sotterraneo, solco, varco, muraglia, ciglio, sottobosco;ma più spesso “distanza”, parola che infatti ricorre in molti testi, a volte anche come essere “a metà strada”, nella sua valenza metaforica (“una feritoia di luce schiude un volto/prima della parola a metà strada” e “il tempo marcia a singhiozzi/a metà strada tra il coro e la sponda”)o in quella più propriamente psicologica(“desiderio reale immaginario/che cerca l’uno di raggiungere l’altro”).
Lo spazio così rappresentato, come detto, si rapporta a una parte altra da sé, che si rivela parimenti nella silloge con una ricchezza di termini che la connotano come l’ipostasi di una Natura da cui ci si sente ineluttabilmente separati: dalle “furiose radici” con cui “prende corpo la vita in altre forme”, di uno dei primi componimenti, fino agli asfodeli che “scivolano su improvvisi/fili di pioggia nei bagliori dell’alba”, o al vento che fischia acuto tra i pini, a “un triangolo di sole che traspare tra gli alberi/fin nelle radici”: descrizioni, tutte, che ricorrono negli ultimi testi della raccolta e che l’uso di un’aggettivazione mai scontata sottrae al rischio di un lirismo fine a sé stesso, del tutto inappropriato datal’entità della posta in gioco.
La Natura così vissuta e rappresentata, infatti, lungi dal costituire un limite davanti al quale fermarsi inermi, diventa motivo di anelito, come è reso esplicito dal ricorrere di molti predicati tesi ad esprimere movimento, attraverso i quali, quindi, il margine, da una condizione di potenziale stasi, si apre ad un flusso continuo,che ora è pulsione (“Vedi la pomelia/pulsa con forza”), ora rottura di argini e migrazione (“Rompo gli argini per vorticare/nell’insonnia affilata delle mie/migrazioni”), ora ancora “nomadismo” e “sconfinamento”(si legga per intero la poesia “Senza mappe”), ora infine “sguardo sconfinato”, luce che avanza e sfuma compassionevole in altri corpi: in una parola metamorfosi. L’anelito, infatti, si presenta da subito come mosso da un afflato panico che, nello sconfinamento, nel balzo dal margine, nell’intuizione di un’altra possibile bellezza (“Quando la luna sale o il vento spira/in ogni istante la bellezza dura/anche se il dolore è un buco che divora”), diventa palingenesi: così nella serie “braccia del prato”, “pelle di melagrana”, “intrico di radici nelle ossa”, “fluire di glicini sulle tempie/nell’inguine nudo del maestrale”; o nel bel verso “non so se chiarore di mandorlo/può fiorirci ancora sulle palpebre”, fino alla dichiarazione esplicita di “Nessuno è solo”, testo davvero notevole: “Fuori da questo silenzio c’è una forma/ di amore in aria sospesa/fermati e ascolta fino in fondo/ogni eco lontano/si spande nel cammino di ognuno/insegue tracce un po’ in penombra/sente forte un richiamo di futuro”.
Ma ciò che riesce a radicare questo percorso di ricerca su un tessuto poetico di grana finissima, sottraendolo al rischio dello smottamento intellettuale, sempre incombente quando ci si confronta con termini quali anelito e Natura, è il fatto che è proprio alla parola, e alla parola poetica in particolare,che l’autrice affida il compito di questa questo sconfinamento del margine dal margine,del suo divenirealtro, così che alla fine del percorso si possa dire che “Non avremo corpi né confini/solo innumerevole esistenza/scorrerà nel vento/Sarà un unico respiro atemporale/a farci adempimento e condivisione” (Itaca perduta). L’investitura della parola (tecnicamente: il suo ingaggio) avviene esplicitamente nella silloge, in una serie di versi deliberatamente ripetuti in due distinti, quasi adiacenti testi (Come in Delaunay e Non distogliere gli occhi): “Nutri la parola custode inerme/ di memoria e pietà/specchio e segno certo/della nuda voce da restituire/alla terra degli uomini”. Si tratta di una parola forte e ostinata, adatta al compito, che,pur nel flusso magmatico, a volte onirico in cui sembra succedere a sé stessa (ricorrente il riferimento all’Etna e a certi leopardiani modi della “ginestra”), non perde mai il carattere, per niente scontato, dell’appropriatezza. Ne sono indizio anche alcune scelte stilistiche, coerenti con l’impostazione generale della silloge, come la pressoché totale assenza di punti a chiusura dei singoli periodi, quasi a voler rimarcare il carattere aperto di un margine che non accetta limitio confini; o l’uso del corsivo, con cui alcuni versi vengono evidenziati e in un certo senso estrapolati, ora in funzione gnomica, quasi assertiva (“Resistere è il nuovo confine”, “meglio lasciarci alle spalle ogni assillo” o “non c’è salvezza dopo ogni guerra” e ancora “nessuno proprio/nessuno può farcela da solo”); ora, all’estremo opposto, come mere annotazioni, appunti di un quotidiano sorprendentemente semplicenel contesto dato: “Si respira come tra scogli e sabbia/l’attesa del maestrale” o anche “L’alba tarda a far chiaro”.
In questa articolata, complessa scansione, “Sul margine” sembra trovare compimento in una poesia posta fra le ultime, “Fuoco e cenere”, il cui incipit riprende significativamente il titolo della silloge e che nel contenuto rivela il motivo di una fascinazione che sola giustifica quella faticosa apertura all’altro che, nel momento in cui organizza la sua “Resistenza” alla vita,diventariconoscimento e rinuncia di sé, e insieme umano protendere:

Sul margine la felce incendiata
rivela un suo saldo credo e non smette
di negoziare testarda e tenera
nel più lieve dei gesti la vita
non avevo visto niente di più bello
prima di questo mattino
Suppongo che tra gli esseri umani
ci sia bisogno di cose del genere
e invece ci si perde nel vuoto
(…)

Francesco Scaramozzino

Melzo, marzo 2024

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