Poesie inedite di Michele Lacava

Michele Lacava


Succede al fiume che si secca
farsi letto per le carcasse
mentre intorno l’erba muore
e noi seduti a domandarci perché qui non piove.
L’acqua, un tempo, scorreva senza scomodarci
cercavamo i ciottoli per valutare quali incidere.
Li provavamo tutti, dai più piccoli ai più grandi,
ma quelli frastagliati li toccavamo cauti
per evitare di ferirci e lasciare il nostro sangue
appiccicato come le promesse al tempo.

La pioggia ancora non si vede.
Ed è come se la lingua non avesse più saliva
e le parole giunte alla salita
rimanessero sospese, avvolte
dentro un nodo in gola stretto
più dei denti quando vuoi urlare
ma hai paura di svegliare
ciò che non ti fa dormire.

*
Sei nata in un palmo
uno schiocco di dita
ti ha fatto falena.
Ti hanno messo le ali ma voli
solo intorno a un lampione o all’alone
di una lampada a cera.
Venire alla luce rimanerci asservita
sei nata d’estate ma hai addosso l’autunno,
sei nata in un palmo che aveva gli artigli.
Gli uomini promettono ai figli
il cielo ma gli danno la terra.
Si siedono e lo guardano insieme
scambiandosi un finto sorriso.
Ma è chiara la tristezza sul viso
mentre la menzogna passa di gene in gene.

*
Sotto il letto sto cercando
le filastrocche, i fasti
i pasti che respinsi alla mensa dell’asilo.
Ma vuoi che sia peccato
rinunciare al cibo quando sei un bambino?
Il digiuno si perdona
se hai la pancia piena
mangiavo a morsi il cielo,
per tutta la mia infanzia
vi ho nascosto il sole.
E, adesso, cosa fate?
Per punirmi mi svelate
che il mare che credevo non finisse
di infinito ha solo il sale?

*
Si schianta e si frantuma
fino a farsi polvere
si raccoglie sui tuoi palmi
ed è proprio una fortuna
che una stella preferisca le tue mani
alle tante facce della luna.
Soffia forte perché anch’io
possa respirarla
fino a soffocare per abuso di splendore.
Ma tu non preoccuparti,
non mi farò del male
sarà un modo come un altro
per provare a illuminarmi.
La notte, cara, è profonda
non si vede ancora il sole
e chi non nasce sotto una buona stella
deve cercarsi luce altrove.

*
Negli occhi dei gatti la tempesta è passata
ma sulle dita dei morti restano i graffi
e i grani delle preghiere inevase.
Una volta mi hai detto che siamo candele,
bruciamo senza mai divampare
e poi ci sciogliamo in un lago di cera.
Ma fino a quando la fiamma resiste
-anche se piccola e tenue-
le mie mani e le tue danzeranno sui muri
come ombre di vita a passo di luce.

*
Mentre il cielo cadeva in frantumi
nel tuo petto ho trovato un soffitto.
Adesso, ho di nuovo una casa
per lasciare l’odio fuori la porta
ballare fino all’ultima nota
maldestro e sbilenco
(come il mio solito)
passando da una camera all’altra
come si passa la rosa in un tango.
Poi, vorrei che le tende
restassero aperte
per guardare là fuori e poter misurare
la vita che ho dentro,
indicare la fine che tanto è lontana
se basta a coprirla la punta di un dito.

*
Alcune sono solo bozze, altre
frasi pronte già stirate
per essere indossate
da chi si mise a nudo
per tuffarsi in un mare di parole.
Ma, ormai è risaputo:
solo chi sa nuotare non annaspa
e può resistere anche all’onda più violenta.
Noi ci siamo detti tante volte,
ci siamo confidati
di aver bisogno di una riva
oppure di uno scoglio contro cui lanciare
la paura e i suoi tentacoli.
Ma da quando hai detto estate
il sole scotta più del solito
e la spiaggia che da tanto aspettavamo
ora è un altro posto da cui fuggire.

*
Apri bocca e mi respiri
quasi avessi fiato per entrambi
l’aria tutta a tua disposizione
e gli altri esseri viventi
accogliessero impotenti la tua mossa.
Ma se mi trattieni senza stringermi
nel torace tra le costole,
sarò libero di muovermi nel corpo
alla ricerca del principio
dell’amore in ogni forma,
sia quello che dà ossigeno,
sia quello che lo toglie.

*
Nei miei vuoti c’è un blu
scarto di mare dove l’onda si attenua
e ritorna a sé stessa
più piccola e lieve di com’era partita.
Nei miei vuoti c’è un osso
a cui aggrappare la pelle
per strapparla coi denti
e valutare quanto sono appuntiti.

Nei miei vuoti ho scartato
le parole di troppo, i pezzi indigesti
brandelli di un giorno sedimentati nel nulla
a riempire il cratere di un suolo ferito.
Ma non vorrei che la polvere avesse
la meglio su tutto.

Quindi, aspetto che piova
con il fremito e l’ansia
di chi vuole rinascere ancora
nel preciso momento
in cui il tuono mi avvisa
che il cielo di sopra comincia a morire.

*
Tornavo stanco sui miei soliti passi
dopo un giorno durato una vita.
Speravo nel fuoco nel calore di un bacio
all’altezza del petto pendeva un sospiro.
Non farmi restare fuori la porta
a contare falene
e un respiro di rosa affogare nel buio.
Prendi quel giunco
cresciuto per sbaglio sul ciglio del fiume.
Prendilo e legami dita e caviglie
perché io possa restare
fermo in silenzio e capire nell’aria
quanto pesa la sera.

*
Ho tenuto al caldo il tuo nome
tra un’estate e l’altra
ma dovrò aspettare altre stagioni
nella speranza che maturi.
L’ho scoperto di nascosto
quand’era ancora acerbo
l’ho carpito, l’ho rubato
come una mela dal tuo cesto.
Ma certi frutti nascono
per non essere mangiati.
Li si annusa, ci si inebria,
ci si impregna la memoria
di un profumo toccasana
per l’inverno e i suoi malanni.

*
Insieme a qualcun altro
scrivo di chi è solo
sperando che nessuno
mi legga a notte fonda.
Noi siamo rabbia e sfogo
e la nostra pancia sarà vuota
se nel rogo butteremo quel ciarpame
che affolla le soffitte da decenni.
Polvere nel turbine, povera
la mano che s’illude
di agguantare il fulmine
in mezzo a una tempesta.
Ma se non ci lasciamo imbambolare
dal bagliore che non resta,
allora noi saremo
l’umido rimasto nella terra
dove il passo può diventare traccia
prima che il vento geli le sue zolle.

*
La notte ha miagolato insieme ai gatti
ed io l’ho vista far le fusa al giorno
nascosto in uno spigolo di buio
lontano dalle luci di passaggio.
Domani è una missione
di cui è ignoto il committente
ma offrire al sole la mia vista
forse può bastare
per portarla a compimento.
Nel cortile, intanto, i meli aspettano
ancora un mese per fiorire;
primavera primadonna,
quanto dura questo inverno?
Ma i merli, per fortuna,
sanno far spuntare l’alba
con un battito di ali
come fossero carboni
gli ultimi rimasti –
che con il soffio di un attizzatoio
si accendono di nuovo
per bruciare ancora un poco.

Michele Lacava è nato a Tricarico (Mt) il 6 maggio 1997. Cresciuto a San Chirico Nuovo (Pz), attualmente vive a Bologna dove studia scienze politiche all’università e lavora nell’ambito dei servizi ambientali. Collabora con il blog del Centro Studi Leone XIII per il quale scrive articoli di politica e attualità. Scrive poesie sin dall’adolescenza e a maggio di quest’anno ha pubblicato la sua prima raccolta poetica Le strade dritte sono senza stelle (De Nigris Editori).

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