IL MODELLO PSICOTERAPEUTICO RELAZIONALE DI MAURIZIO ANDOLFI

 

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Maurizio Andolfi

Il punto di partenza di Maurizio Andolfi è la considerazione della famiglia come sistema relazionale, più nello specifico la considerazione della famiglia come sistema in costante trasformazione fra continuità e crescita. In questa visione la famiglia è un sistema in grado di autogovernarsi mediante regole sviluppatesi nel tempo ed è un sistema aperto in costante interazione con altri sistemi sociali. Se vengono accettate queste premesse automaticamente si sposta l’osservazione dal comportamento del singolo alle sue relazioni, cioè dalla spiegazione del comportamento individuale all’osservazione delle interazioni fra i vari membri della famiglia e poi dalla famiglia agli altri sistemi sociali con cui essa interagisce. Secondo Maurizio Andolfi lo psicoterapeuta relazionale convoca l’intera famiglia e cerca di stabilire fin dall’inizio un clima confidenziale, rassicurante e collaborativo e soprattutto evita di far “slittare il contesto” non presentandosi come persona giudicante, alleata di qualcuno, magari del più debole o peggio ancora come esperta. In genere le famiglie che chiedono un aiuto sono state inviate con una diagnosi da un collega, quindi con il loro “bel fagotto” fatto di convinzioni che il loro familiare portatore del disagio a mo’ di capro espiatorio sia il problema, il cosiddetto “paziente designato” e credono di demandare con una delega tecnica allo psicoterapeuta che dovrà fornirgli la chiave magica per risolvere quel problema, il loro problema. Lo psicoterapeuta relazionale ridefinisce subito le sue competenze e così facendo sposta ben presto l’attenzione dalle capacità curative del medico o del farmaco alla capacità che possiede quella data famiglia di auto guarirsi. In questo modo la famiglia si prende in carico i propri problemi relazionali diventando protagonista del proprio cambiamento. Lo psicoterapeuta relazionale rinuncia al ruolo di guaritore magico innanzitutto vestendo i panni del consulente dei problemi che la famiglia porta in terapia e successivamente vestendo i panni del supervisore di tutti gli sforzi che la famiglia compie durante tutto il percorso terapeutico. Per fare questo egli entra nel sistema familiare con il proprio bagaglio di esperienze, con la sua personalità, la sua fantasia, il suo modo personale di vivere le sue emozioni. Secondo Maurizio Andolfi il setting terapeutico, cioè il luogo dove avvengono le terapie dovrebbe essere una stanza abbastanza grande con tante sedie in modo che i vari membri della famiglia possano disporsi in cerchio con una lavagna sul muro ed una cassa piena di giochi per i bambini. Altre caratteristiche fondamentali per la stanza di terapia sono lo specchio unidirezionale dietro cui ci sta il supervisore e gli osservatori che molto spesso sono studenti di psicoterapia, un impianto audio e video per le riprese audio e video delle sedute. Bisogna sempre chiedere il consenso alla famiglia prima di effettuare queste riprese, che possono essere utilizzate stesso durante il percorso terapeutico o per favorire il playback cioè per rivedere e commentare alcuni passaggi cruciali per la terapia o per l’effetto coesivo che comporta nei confronti della famiglia il vedere loro stessi e lo psicoterapeuta lavorare insieme. Lo specchio unidirezionale è una specie di diaframma, uno strato permeabile, fra il sistema famiglia / psicoterapeuta ed il sistema supervisore / osservatori. Quest’ultimo sistema formato appunto da supervisore ed osservatori essendo meno coinvolto emotivamente riesce ad avere una visione d’insieme più chiara e nitida e quindi risulta fondamentale per il buon esito della terapia. La relazione fra psicoterapeuta nella stanza e supervisore dietro lo specchio unidirezionale è importante per la riuscita della terapia, sono un po’ come giocatore ed allenatore, funzionano nella reciprocità. Possono comunicare mediante il citofono oppure ogni qualvolta lo psicoterapeuta senta l’esigenza di uscire dalla stanza. L’idea che sta alla base della supervisione è che qualsiasi famiglia può risucchiare lo psicoterapeuta nelle proprie interazioni impedendogli di agire per il cambiamento, in altre parole il rischio che corre lo psicoterapeuta è di rafforzare le interazioni che hanno portato la famiglia a chiedere un aiuto. L’apporto principale di una supervisione è che a caldo si possono modificare eventuali errori dello psicoterapeuta che sta in seduta, con degli interventi terapeutici più efficaci. Inoltre una supervisione permette di utilizzare un membro della famiglia nel ruolo di co terapeuta temporaneo, come dice lo stesso Maurizio Andolfi: “Aver trovato un co-terapista nella famiglia vuol dire essere entrati all’interno di quel sistema e rappresenta un passo decisivo nel progresso terapeutico”. La prima seduta per l’approccio relazionale è fondamentale, dato che rappresenta il primo incontro fra la famiglia e lo psicoterapeuta e quindi anche la prima occasione per stabilire un contesto collaborativo e di fiducia reciproca. Però il primo incontro incomincia fin dal primo contatto telefonico in cui è fondamentale raccogliere informazioni che saranno poi analizzate in termini relazionali. Cioè quello che spesso viene riferito durante il contatto telefonico è una versione del problema e non il problema di cui ancora non si sa niente. Secondo Maurizio Andolfi una prima seduta si può suddividere schematicamente in quattro stadi successivi: uno stadio sociale in cui vengono messi a loro agio i vari membri della famiglia, li si fa sedere a loro piacimento, li si informa sullo specchio unidirezionale e sulla presenza del supervisore e del gruppo di ascolto che stanno nell’altra stanza. Durante lo stadio sociale lo psicoterapeuta raccoglie informazioni sul tono generale della famiglia, ad esempio se è congelato, se le risposte alle domande dello psicoterapeuta sono a monosillabi, oppure se è un tono generale accusatorio o se è un tono generale collaborativo. Inoltre durante lo stadio sociale vengono raccolte informazioni sulla relazione fra genitori e figli, sulla relazione fra i genitori,  sulle relazioni fra i figli e anche sulla relazione fra i membri della famiglia e lo psicoterapeuta. Allo stadio sociale segue durante la prima seduta lo stadio dello studio del problema cioè si passa da una conoscenza generale della famiglia ad uno studio più approfondito del problema che ha condotto quella famiglia a chiedere un aiuto. Durante lo stadio dello studio del problema lo psicoterapeuta chiede ai singoli membri cosa si aspettano venendo in seduta o meglio quali cambiamenti vorrebbero vedere nella loro famiglia. Mentre ascolta ciò che i membri riferiscono circa il loro problema lo psicoterapeuta non deve mai dare interpretazioni o fare commenti che facciano vedere il problema in maniera diversa da come quella persona vede il problema, deve evitare di dare consigli pedagogici e soprattutto non deve farsi coinvolgere dalle emozioni relative al problema espresse dai membri della famiglia. Fra le cose che lo psicoterapeuta deve fare mentre ascolta invece ci sta il fatto di fare esprimere a ciascun membro la propria opinione sul problema e questo è molto utile per vedere il grado di differenziazione dei vari membri all’interno della propria famiglia, se qualcuno interrompe o squalifica un membro della sua famiglia lo psicoterapeuta ne prende atto e usa tutti i mezzi che ha a disposizione affinché una cosa del genere non accada più. Infine lo psicoterapeuta deve spingere i vari membri ad effettuare descrizioni del problema in termini concreti. Mentre lo psicoterapeuta ascolta ed incoraggia a parlare durante lo stadio dello studio del problema deve osservare come ciascuno si comporta, ciò che ognuno dice e la congruenza fra comportamento e contenuto verbale e soprattutto le reazioni degli altri mentre qualcuno parla con lui. Molto importante in questo stadio è l’osservazione delle reazioni dei bambini e del paziente designato che forniscono utili informazioni sul funzionamento della coppia genitoriale e della famiglia in generale. Lo stadio successivo è lo stadio interattivo, in cui lo psicoterapeuta attiva scambi comunicativi fra i membri della famiglia sul problema assumendo in tal modo una posizione meno centrale, in altre parole spinge la famiglia a parlare del problema che hanno portato in terapia osservando le relazioni e la struttura facendo ipotesi sul modo in cui comunicano fra di loro e prepara così la strada alla successiva definizione di un obbiettivo terapeutico. Alo stadio interattivo infatti segue lo stadio della definizione del contratto terapeutico. Il contratto terapeutico è dato 4dall’impegno che ognuno si assume per favorire il cambiamento desiderato e deve essere chiaro e concreto. Una volta stabilito un obbiettivo che ovviamente può essere modificato durante la terapia ci si può mettere d’accordo sul luogo in cui fare le sedute, sulla cadenza settimanale o quindicinale e sulla durata generale della terapia. Definito per bene il contesto dell’interazione il passaggio successivo è comprendere se il linguaggio non verbale contraddice o conferma il linguaggio verbale. Ogni volta che due persone comunicano fra di loro è presente sia un’informazione di contenuto che un’informazione sulla relazione stessa, quindi ogni comunicazione informa anche sul rapporto che esiste fra quelle due persone. In genere dato che l’aspetto di contenuto e quello di relazione in un messaggio sono complementari è più probabile che l’aspetto relativo al contenuto sia veicolato dal linguaggio verbale mentre quello inerente alla relazione è più probabile che venga veicolato dal linguaggio non verbale. La comunicazione verbale e quella non verbale differiscono per quanto riguarda l’oggetto a cui si riferiscono, infatti quando si raccolgono informazioni sulla storia della famiglia e sui rapporti fra i vari membri che la costituiscono appunto raccontare in modo verbale risulta più difficile rispetto ad “agire” tramite una scultura familiare usando per l’appunto un modulo non verbale ad esempio. Il linguaggio non verbale fornisce informazioni sulla relazione e sulla sua natura mentre quello verbale informa sui fatti e risulta comprensibile attraverso la sintassi della lingua e solo in maniera simbolica. Affinché un intervento terapeutico sia compreso ed efficace bisogna che lo psicoterapeuta relazionale apprenda la grammatica del linguaggio non verbale del gruppo sociale in cui la famiglia vive e il rapporto che questa grammatica non verbale ha con la lingua parlata del posto in cui vive quella data famiglia. Infine è chiaro che il linguaggio non verbale risulta essere maggiormente collegato all’infanzia ed alla pre-adolescenza. Anche l’uso dello spazio in una comunicazione fornisce informazioni importanti sulla relazione in atto. Fra i diversi studi sul rapporto fra spazio e comunicazione Maurizio Andolfi cita uno studio di Hull che definisce quattro tipologie di distanza in base sia alla distanza fisica che a quella della relazione: una distanza intima, una distanza personale, una distanza sociale ed infine una distanza pubblica. Secondo Scheflen invece esistono tre tipi di posizioni in base al significato della comunicazione e dell’espressione del linguaggio corporeo: posizione inclusiva o non inclusiva in cui i membri di un gruppo possono o meno includere un’altra persona, posizione vis a vis o orientamento parallelo del corpo in cui due persone si mettono in modo da potersi guardare i faccia o l’una accanto all’altra, ed infine una posizione di congruenza ed incongruenza in cui i membri del gruppo si muovono in modo congruente oppure se uno o più membri si dispongono in maniera incongruente rispetto al resto del gruppo. In una terapia relazionale l’accento viene posto sull’agire e sul drammatizzare determinati stati emotivi e conflitti nel presente per verificare la possibilità di cambiamento all’interno della famiglia con lo stesso psicoterapeuta che gioca un ruolo attivo in quel contesto. Ogni psicoterapeuta relazionale si considera un membro attivo e reattivo che con la sua creatività, il suo senso dell’umorismo, le proprie esperienze personali e professionali, col contatto fisico, l’utilizzo dello spazio ed il movimento contribuisce ad esplorare sequenze comunicative funzionali e disfunzionali, confini personali ed interpersonali e disponibilità al cambiamento di quella data famiglia. Decodificare il linguaggio analogico della famiglia permette allo psicoterapeuta di entrare in quella data famiglia e di imparare le regole che ne governano il funzionamento, in modo da poter valutare la coerenza fra messaggi verbali e non verbali. Lo psicoterapeuta funge da intermediario e facilitatore di nuove forme di comunicazioni. Osservando la collocazione nello spazio dei vari membri della famiglia in una stanza di terapia se ne possono trarre tante di notizie utili per proseguire una terapia. infatti come afferma lo stesso Maurizio Andolfi: “ … la geografia della famiglia nello spazio non è mai casuale, è compito dell’equipe terapeutica studiarla correttamente”. Questa disposizione a volte può essere una vera e propria radiografia delle regole familiari codificate e messe in scena anche fin dalla prima seduta. Ad esempio la posizione che occupa nella stanza di terapia il cosiddetto “paziente designato” è spesso diversa rispetto a quella occupata dagli altri componenti della famiglia. Quindi è importante per una valutazione del processo terapeutico l’osservazione delle modalità con cui, sia i componenti della famiglia che lo psicoterapeuta, occupano lo spazio all’interno della stanza dove si fa terapia. Oltre alla posizione che si occupa nello spazio, sono molto importanti anche i movimenti e le azioni che possono essere osservati mettendo in campo una strategia terapeutica volta a raccogliere informazioni ed a drammatizzare e ristrutturare rapporti e canali di interazione al fine di migliorare la situazione dei vari membri di quella famiglia. Nel modello di Maurizio Andolfi assume molta importanza la scultura familiare. Questa tecnica terapeutica ideata da Duhl e Kantor è una tecnica non verbale che permette l’espressione di emozioni ed idee utilizzando il corpo ed il movimento. Una scultura familiare, che viene fatta da un membro scelto dal terapeuta, è una creazione nello spazio di stati d’animo e rapporti emotivi, una rappresentazione tridimensionale delle relazioni fra i membri di una famiglia. Attraverso una scultura familiare vengono rappresentati e sperimentati contemporaneamente relazioni, sentimenti e cambiamenti. Il membro della famiglia che coadiuvato dal terapeuta dovrà diventare scultore dovrà plasmare come creta gli altri mettendo in scena le relazioni più significative che lo legano agli altri e le relazioni che legano gli altri membri fra di loro. In altre parole lo scultore finirà col creare una composizione nello spazio visibile delle sue emozioni e del resto dei familiari in interazione. Quando vengono stabilite le regole generali e viene avviato il processo, lo psicoterapeuta diventa osservatore partecipe ma usando al minimo le parole, infatti una scultura familiare è efficace in quanto rappresentazione spaziale di una situazione emotiva agita e non verbalizzata. Vedere una scultura familiare permette di osservare il funzionamento della famiglia sia nell’intero insieme che nelle singole relazioni fra i diversi membri e rappresenta il primo passo verso il cambiamento. Una scultura familiare permette di osservare tutte le relazioni sia all’interno che all’esterno della famiglia, i rapporti fra le generazioni passate e quelle attuali, permettendo così una maggiore differenziazione fra i vari membri ed una rinuncia a ruoli e comunicazioni stereotipate. Sempre mediante l’impiego della scultura familiare vengono evitate le stigmatizzazioni, le resistenze al cambiamento e le razionalizzazioni. Inoltre l’impiego di questa tecnica aumenta l’effetto coesivo e permette altresì l’individuazione dei vari membri della famiglia. Come dice lo stesso Maurizio Andolfi: “Se il primo passo in direzione di un cambiamento è vedere la relazione, il passo successivo è muoversi da un posto all’altro”. Attualmente la scultura familiare è una tecnica molto impiegata sia in psicoterapia che durante la formazione, nelle scuole di specializzazione ad orientamento sistemico relazionale. Nel modello psicoterapeutico relazionale di Maurizio Andolfi assumono molta importanza le prescrizioni. Una prescrizione è l’assegnazione di un compito, durante una seduta o anche da fare post seduta a casa, che coinvolge in modo diretto o indiretto tutta la famiglia o alcuni membri di essa, in base al lavoro svolto in seduta o ai dati relazionali raccolti o infine in base ai contenuti portati dai vari membri della famiglia in seduta. Durante una terapia la prescrizione, l’assegnazione di compiti, è un intervento strategico volto a favorire un cambiamento, tramite l’attivazione di modelli relazionali diversi che non hanno bisogno della ricerca del capro espiatorio. E’ altresì utile per la formazione di un contesto terapeutico collaborativo con regole generali chiare da rispettare e permette allo psicoterapeuta relazionale di entrare nel sistema familiare e di essere accettato dalla famiglia. Una prescrizione permette anche di amplificare il processo terapeutico stesso grazie ai compiti da fare a casa che dilatano oltre l’ora della seduta la psicoterapia e permette anche di ottenere più informazioni sulle relazioni fra i vari membri e sulla struttura della famiglia. Mediante l’utilizzo di una prescrizione si conduce il gruppo familiare a sperimentare una situazione relazionale operativa, cioè si evita l’emergere di difese verbali e di razionalizzazioni in grado di rallentare il corso di una terapia. Una prescrizione è sempre una comunicazione per i membri di una famiglia che durante la seduta o a casa si chiederanno i motivi di quell’assegnazione di quel dato compito e quindi comunicheranno fra di loro. Secondo Maurizio Andolfi esistono diversi tipi di prescrizioni. Ci sono le prescrizioni ristrutturanti che vengono definite così perché  sono processi in grado di modificare gli schemi relazionali abituali della famiglia usando energie ed elementi già presenti all’interno di quella famiglia stessa. Fra le prescrizioni ristrutturanti ci sono le prescrizioni contro-sistemiche, poco efficaci e spie dell’inesperienza dello psicoterapeuta fatte da semplici consigli dati al paziente designato che dovrebbe cambiare e che spesso finiscono con l’aumentare il clima accusatorio. Poi abbiamo le prescrizioni di contesto atte a favorire ed a mantenere un contesto come ad esempio la prescrizione del silenzio a chi tenta di interrompere un altro mentre sta cercando di esprimersi in seduta oppure il coinvolgimento di un membro periferico o la suddivisione della famiglia in sottogruppi. Esistono prescrizioni di spostamento come ad esempio lo spostamento del problema dal paziente designato ad un altro membro della famiglia. In questo caso lo psicoterapeuta si allea con questo secondo paziente designandolo momentaneamente per mostrare alla famiglia nuovi modelli interattivi. Semplicisticamente la valutazione di un problema cambia se ne compare un altro. Fanno parte degli interventi ristrutturanti anche le prescrizioni  di rielaborazione sistemica, in grado di ristrutturare i modelli di comunicazione usuali della famiglia sostituendoli con altri nuovi e funzionali, come ad esempio chiedere a due membri, spesso padre e una  o un figlia \ o oppure madre e un una o un figlia \ o, di impegnarsi ogni giorno nel mantenere fede ad un accordo stipulato in seduta. Quelle di rielaborazione sono prescrizioni che spingono i vari membri verso una più rapida e maggiore differenziazione fra loro all’interno della famiglia. Ci sono anche le prescrizioni di rinforzo utili a rafforzare cambiamenti già in atto all’interno della famiglia in cui lo psicoterapeuta deve soltanto organizzare una prescrizione che comprenda in modo più articolato il cambiamento già in atto. Il fatto che i membri della famiglia avvertano una conformità fra i loro movimenti e le indicazioni terapeutiche è di per se un fatto positivo in grado di aumentare la coesione interna e il clima di collaborazione nella famiglia. Infine fra le prescrizioni ristrutturanti ci sono le prescrizioni di utilizzazione del sintomo che possono essere sia di attacco diretto che di alleanza rispetto al sintomo stesso. Una prescrizione di attacco del sintomo è “un’aggressione ed una ridicolizzazione” del comportamento portato in seduta dal paziente designato, in pratica lo psicoterapeuta anticipa ed accentua il sintomo con l’effetto di depotenziarlo mentre contemporaneamente sostiene e ricerca aree di autonomia. Una prescrizione di alleanza sul sintomo è molto utile nei casi in cui il paziente designato sia in età adolescenziale o post adolescenziale, cioè durante la fase di svincolo dell’adolescente. In pratica lo psicoterapeuta da un lato provoca l’adolescente sul comportamento sintomatico e contemporaneamente lo sostiene nelle sue potenzialità di adolescente. Grazie a questo duplice e contemporaneo gioco fra attaccare e sostenere lo psicoterapeuta favorisce il cambiamento. Prima di passare a quelle che Maurizio Andolfi definisce  prescrizioni paradossali , bisogna chiarire che una prescrizione paradossale si effettua dentro un approccio psicoterapeutico paradossale, cioè vengono applicate ponendo il sistema famigliare dinanzi all’obbligo del cambiamento. Una situazione paradossale contiene sempre un’affermazione che è vera solo è falsa, cioè quando ci si trova dinanzi ad un doppio legame, quando vengono inviati contemporaneamente due messaggi che risultano essere incompatibili fra di loro. L’esposizione ai doppi legami la sperimenta ognuno di noi nella vita di tutti i giorni, ma quello che è disfunzionale e causa di disagi psicologici è quella situazione per cui ci si trova esposti a questa modalità comunicativa per tanto tempo e si finisce col pensare che quella sia l’unica modalità comunicativa possibile e pian piano si diventa parte attiva in un gioco senza fine ed alla fine ci si trova coinvolti in un modello interattivo patologico. L’impiego delle prescrizioni paradossali in psicoterapia serve appunto ad interrompere questo tipo di circoli viziosi, dato che è molto frequente trovarsi di fronte a famiglie che da un lato chiedono aiuto e dall’altro fanno di tutto per non cambiare, con lo psicoterapeuta che si trova coinvolto suo malgrado in questo gioco senza fine. Questo gioco senza fine apparentemente contraddittorio in realtà serve alla famiglia per mantenere l’equilibrio fra la “debole” tendenza al cambiamento presente nella richiesta di aiuto e la “forte” tendenza della famiglia a rimanere ancorata nelle proprie sequenze comportamentali di sempre, come dice lo stesso Maurizio Andolfi: “aiutami a cambiare ma senza modificare nulla”. Ed è proprio quando lo psicoterapeuta si trova dinanzi ad un doppio legame che può accettare anziché subire questa contraddizione di modo da offrire alla famiglia che non se lo aspetta un contro paradosso che può favorire un cambiamento. Questo contro paradosso può essere offerto alla famiglia attraverso la prescrizione del sintomo per il paziente designato o attraverso la prescrizione delle regole disfunzionali per tutta la famiglia. Una prescrizione del sintomo ad un paziente designato consiste nell’incoraggiare quella persona a continuare con il o con i sintomi. E questo incoraggiamento produce un effetto contro paradossale per cui il paziente si sente accolto dallo psicoterapeuta e migliora. Una prescrizione delle regole consiste in un incoraggiamento alla famiglia a mantenere le regole rigide che causano l’omeostasi familiare. In pratica prescrivendo le regole rigide che caratterizzano le relazioni di quella famiglia paradossalmente si rende possibile un processo di cambiamento. Il punto centrale di un ingiunzione paradossale delle regole che governano la famiglia è che quest’ultima o accetta la prescrizione dello psicoterapeuta oppure trasgredisce la prescrizione e quindi cambia le proprie regole di relazione. In ambo i casi il gioco sotterraneo di regole rigide di cui i membri della famiglia sono stati attori e prigionieri emerge incominciando a diventare visibile. Un ultimo tipo di ingiunzioni sono le prescrizioni metaforiche, utili nel fare eseguire alla famiglia compiti in seduta ed a casa usando per l’appunto metafore. Il linguaggio metaforico è un modo di comunicare su una cosa che somiglia ad un’altra. Usare un linguaggio metaforico risulta utile per raccogliere informazioni e talvolta può spingere la famiglia verso il cambiamento. Un compito metaforico può essere assegnato ad un singolo membro, ad una coppia o a tutta la famiglia, Schematicamente secondo Maurizio Andolfi una terapia si suddivide in diverse fasi che portano man mano una famiglia a cambiare dalla rigidità iniziale tramite uno sbilanciamento del sistema familiare rigido fino a giungere ad una demarcazione dei confini fra le varie generazioni per giungere infine ad una negoziazione di autonomie reciproche. Lo psicoterapeuta si pone come nesso relazionale, nel senso che interviene, si distacca dai vari triangoli, usa questi triangoli, entra in rapporto con ognuno dei membri della famiglia, diventa un attivatore di relazioni. Quanto più egli riuscirà a legare, slegare, strutturare e ristrutturare i legami tanto più indurrà nella famiglia la capacità di sperimentare nuove posizioni, nuovi legami. Altra caratteristica che è utile allo psicoterapeuta è la capacità di immedesimazione nel mondo di ogni membro della famiglia, che diventa utile per comprendere se e quanto ciascun membro e l’intera famiglia siano in grado di accettare la sfida del cambiamento. Come già detto in precedenza una terapia incomincia fin dalla prima telefonata, in cui un membro della famiglia presenta allo psicoterapeuta quello che viene definito il loro problema, con la  richiesta di risolvere questo problema ad una persona considerata competente, appunto lo psicoterapeuta. Fondamentale è l’atteggiamento dello psicoterapeuta che interagendo al telefono, col membro più coinvolto dal problema o designato a prendere l’appuntamento, chiede informazioni, esplora le relazioni. Ci si trova di fronte ad una proposta di relazione fatta allo psicoterapeuta dal membro della famiglia che funge da intermediario o garante della sua famiglia. Già durante questa prima telefonata si disegna uno scenario della prima seduta. Intanto lo psicoterapeuta costruisce ipotesi triangolari e esplora punti nodali, cioè delle ridondanze comunicative che di solito sono ignorate dalla famiglia ma che sono utili per la creazione di una mappa familiare. Quindi lo psicoterapeuta costruisce una storia grazie alle proprie percezioni ma anche grazie agli elementi che i vari membri della famiglia gli raccontano. Questa storia alternativa ed altra rispetto al solito copione che viene inscenato dalla famiglia comincia a prendere forma fino a diventare un oggetto intermedio che funge da terzo polo di questo triangolo i cui vertici sono: la famiglia, lo psicoterapeuta e la storia alternativa. Usando le parole dello stesso Maurizio Andolfi: “Nella costruzione di questa storia terapeutica, il terapeuta diventa parte integrante della famiglia, come questa dell’equipe terapeutica, in quanto l’uno o l’altra scompaiono come entità staccate per ritrovarsi in uno spazio ed in un tempo diversi, il sistema terapeutico ovvero il terzo pianeta”. E’ molto importante osservare la triade formata dalla coppia di genitori con la figlia o con il figlio, perché all’interazione di questa triade sono collegate possibilità di alleanze a due e la scoperta di nuove risorse individuali. Infatti dall’osservazione del terzo di ciò che accade nell’interazione fra gli altri due egli può trarre esempio e nuove risorse. Si deve a Maurizio Andolfi l’aggiunta ad i triangoli di un’altra dimensione intergenerazionale, ossia l’osservazione delle relazioni triangolari su un piano trigenerazionale, dunque la creazione dei cosiddetti triangoli  trigenerazionali. I comportamenti delle persone sono segnali indiretti di bisogni e di coinvolgimenti emotivi del passato che si manifestano nelle relazioni attuali. Quindi è utile conoscere le “coordinate familiari” o per dirla con le parole dello stesso Andolfi: “La comprensione dell’individuo e dei suoi processi di sviluppo sembra quindi favorita dalla costruzione di uno schema di osservazione che permette di vedere i comportamenti attuali di una persona come metafore relazionali”. Risulta fondamentale per uno psicoterapeuta delimitare i vari triangoli familiari, inserirsi in essi come terzo elemento attivando il ruolo di osservatore in uno o nel’altro dei componenti del triangolo, per ricercare elementi di mediazione e di una trama alternativa. Ciò è possibile perché lo psicoterapeuta rispetto ai vari membri della famiglia gode di una maggiore libertà, perché non deve obbligatoriamente sostenere o proteggere questo o quel membro della famiglia, tantomeno ha bisogno di salvaguardare certi legami per preservare la propria identità, ma soprattutto ha l’ausilio dell’equipe terapeutica. Per essere efficace una provocazione terapeutica deve andare a braccetto con un’azione di sostegno, se uno psicoterapeuta attacca il sistema sostiene contemporaneamente l’individuo. In questo senso una provocazione terapeutica è un atto comunicativo che coinvolge tre elementi: lo psicoterapeuta, la persona a cui è rivolta la provocazione ed un altro elemento che è il terzo del triangolo. La capacità dello psicoterapeuta di entrare ed uscire velocemente da questi triangoli comunicativi  relazionali è molto importante. Entrare in un triangolo vuol dire interagire con uno e lasciare all’altro il ruolo di osservatore viceversa uscire da un triangolo significa riprendere il ruolo di osservatore e favorire nuovamente l’interazione fra i due. Altro tassello molto importante nella formulazione teorica e clinica, dunque nel modello psicoterapeutico, di Maurizio Andolfi è la costruzione del cosiddetto mito familiare. Un mito familiare si trova a metà fra elementi reali ed elementi di fantasia, in pratica al posto dei vuoti e delle mancanze viene costruito dai membri della famiglia un mito familiare in grado di dare risposte ai grandi temi della vita. Ogni mito familiare contribuisce a creare una realtà utile ai bisogni emotivi di una data famiglia e serve a dare un senso specialmente a fatti ambigui che causano lo stato di disagio. In poche parole la creazione del mito familiare serve a trovare una causa o un nemico, sia esso un membro della propria famiglia che un fattore esterno. I miti familiari somigliano alle regole che governano una data famiglia in quanto sono rigidi come le regole e contribuiscono alla creazione di una griglia rigida della percezione della realtà. Inoltre somigliano alle fiabe nel senso che ogni mito familiare come una fiaba viene costruito intorno ad una serie di eventi, di personaggi, di ruoli e di simboli che contribuiscono a formare una trama narrativa. Così come le fiabe sono diverse le une dalle altre anche i miti familiari e individuali sono diversi gli uni dagli altri, ma nonostante queste evidenti differenze formali, i miti familiari come le fiabe contengono elementi universali come ad esempio: problemi irrisolti relativi alle perdite, alle separazioni, agli abbandoni, alle individuazioni, al nutrimento ed alla deprivazione. In altre parole un mito familiare è una serie di credenze, integrate e condivise da tutti i membri di una famiglia e che riguardano ognuno di loro e le loro relazioni dentro alla famiglia. I miti individuali contribuiscono a creare il mito familiare e quest’ultimo poi condiziona i vari membri nella lettura e nell’interpretazione della realtà, il mito familiare diventa  come una “sorta” di codice di lettura della realtà. La comprensione di un mito familiare acquista maggiore efficacia terapeutica se lo psicoterapeuta lo considera all’interno di un approccio trigenerazionale e se considera i miti come strutture che si costruiscono e si modificano nel tempo. Il mito si trova immerso in una serie di relazioni in continua evoluzione, che creano connessioni e \ o divergenze con il suo significato originario. E’ durante le fasi critiche della vita, (cioè quando siamo in presenza di morti, separazioni, cambiamenti ma anche di nascite) che i miti familiari vengono attivati ed è durante questi momenti che le trame del mito possono essere modificate. La prima cosa da fare è decifrare il mandato che ogni membro ha nei confronti del mito o comprendere la delega che funge da “stampo del bisogno” parafrasando lo stesso Andolfi.  Un mandato familiare è un insieme di regole che si è costituito nel tempo, ossia una serie di cose da fare ed un’altra serie di cose da non fare per appartenere ad una certa famiglia. Il disagio viene fuori nel momento in cui c’è discrepanza fra questo mandato familiare e le aspettative ed i desideri individuali. Quindi è dall’attrito fra le esigenze familiari e quelle individuali che nasce il sintomo che è solo una spia del disagio. Quindi è nel momento della scelta che ognuno di noi si trova dinanzi a questo tipo di problematiche che spesso vengono risolte con la mediazione fra le esigenze familiari e quelle proprie. Uno psicoterapeuta relazionale ha il compito di favorire i rapporti dei vari membri della famiglia con la loro famiglia di origine mettendo in luce la delega nascosta su cui è cresciuto il sintomo del paziente designato, poi deve riuscire a svelare le affinità che uniscono i vari membri fra di loro. Usando le parole dello stesso Maurizio Andolfi: “Scoprire gli elementi di unione diventa così preliminare a ogni lavoro che si proponga di separare,  perché non si può separare se prima non viene individuato il filo che unisce”. Un buon metodo per favorire lo sviluppo del percorso psicoterapeutico è considerare i genitori come co – terapeuti, perché oltre a favorire la loro presenza a tutte le sedute induce un nuovo modo di relazionarsi all’interno della famiglia e permette la ricerca di altre trame da scrivere, al posto delle solite interazioni e del vecchio copione. Il mito familiare ha un rapporto molto stretto coi cosiddetti riti familiari, da un lato viene generato da loro e dall’altro lo rappresentano e sono in grado di modificarlo. I riti familiari sono un insieme di azioni e di comportamenti codificati e ripetuti nel tempo all’interno di una famiglia ed a cui tutti o alcuni membri partecipano. Hanno la funzione da un lato di trasmettere ai partecipanti valori e comportamenti rispetto ad alcuni vissuti emotivi specifici, dall’altro lato offrono significati e formano una struttura per una successiva modifica del mito familiare stesso. Il rito familiare ha la duplice funzione di trasmissione e di perpetuazione del mito familiare, solo che a volte questa ripetizione ossessiva può essere ambigua fino a sfociare nel ridicolo, preparando il campo per un cambiamento. Tramite i riti familiari i vari membri di una famiglia imparano a conoscersi fra di loro ed a comportarsi in maniera adeguata fra di loro. Secondo Wolin e Bennett i riti familiari si suddividono in: ricorrenze, tradizioni e interazioni familiari. Un mito familiare è ciò che cementa i riti familiari, l’elemento in grado di unire tutti i diversi membri della famiglia che hanno partecipato alla sua creazione. Dato che riguarda l’identità di una famiglia si può ben comprendere come un attacco al mito familiare venga vissuto dai singoli membri come un attacco a se stessi, alla propria identità. Il sistema famiglia è coeso e stabile in base alla rigidità ed alla ripetitività del copione familiare, poi sopraggiunge una crisi evolutiva, sia essa reale o sia essa una preoccupazione che la crisi accada è ininfluente, a questo punto assistiamo a degli sforzi di questo sistema famiglia per trovare di nuovo l’omeostasi. In questo caso l’obbiettivo terapeutico è rompere gli schemi relazionali rigidi, c’è da aggiungere che a volte possono trascorrere anni affinché una famiglia chieda aiuto e questo tempo è dovuto alla crescita della capacità di tollerare un terapeuta da parte della famiglia. Paradossalmente se lo psicoterapeuta si pone come guardiano del sistema famiglia e della sua rigidità, riesce ad ottenere un cambiamento, infatti come dice lo stesso Andolfi riferendosi alla ripetitività ed alla rigidità del copione familiare: “per rompere è necessario non interrompere”.  Quando durante una seduta ci si sposta dai discorsi alle rappresentazioni ne giovano sia i membri che tutto il sistema famiglia, cioè anche le parti ed i ruoli inscenati rigidamente in base al canovaccio familiare diventano più vividi e vibranti se vengono agiti durante la seduta. Quindi la drammatizzazione dei vari rituali serve a fare emergere il mito familiare ed a favorire il cambiamento. Un’azione terapeutica serve per cercare di scoprire e fare emergere le conflittualità profonde di cui il sintomo del paziente designato è solo un punto riferimento, quindi un’azione terapeutica diventa un atto creativo. Una psicoterapia comincia come detto in precedenza fin dalla prima telefonata e poi prosegue con le proprie peculiarità per tutto il suo percorso. Lo psicoterapeuta relazionale non accettando passivamente le richieste che gli vengono fatte dalla famiglia, ampliando di volta in volta il conteso, introducendo variabili nuove, ridefinendo le affermazioni durante le sedute, sottolineando i confini mette in  moto il processo di separazione. Ricordiamo brevemente che per Andolfi i processi di unione e separazione accompagnano ognuno di noi per tutta la vita e riguardano sia i rapporti con le generazioni precedenti che le relazioni che abbiamo quotidianamente con le persone a noi care con cui interagiamo. Durante la vita si passa da una condizione di dipendenza iniziale mediante un processo di differenziazione e la conseguente creazione di confini fino al raggiungimento di una situazione di intimità con l’altro. Famiglia e psicoterapeuta procedono con cautela costruendo una situazione di intimità in grado di favorire un cambiamento, cercando di costruire quello che lo stesso Andolfi definisce: “ .. una nuova realtà, separandosi da quella vecchia”. Dunque la separazione non è un evento che accade in un dato momento, ma piuttosto è il frutto di un processo che comincia quando inizia la psicoterapia stessa e l’accompagna fino alla sua fine. La principale funzione dello psicoterapeuta relazionale diventa quella di unire e ricostruire contesti ed esperienze diverse. Lo spazio terapeutico, la stanza della terapia, diventa il contesto dei contesti, il luogo in cui le relazioni fra i vari membri della famiglia provano nuove esperienze e cambiano. Si può schematicamente suddividere l’intero processo psicoterapeutico in tre fasi: una prima fase in cui il paziente designato è presente in ogni triangolo relazionale, una seconda fase in cui lo psicoterapeuta si sostituisce al paziente designato nei vari triangoli ed infine una terza fase che corrisponde grosso modo alla fine della psicoterapia in cui lo psicoterapeuta si separa dal gruppo familiare ed i vari triangoli relazionali si formano più liberamente senza che ci sia la presenza del paziente designato. Mi piace terminare questo scritto, incompleto e parziale, sul modello psicoterapeutico relazionale di Maurizio Andolfi con le sue stesse parole sulla conclusione di un processo psicoterapeutico che non è solo la scomparsa del sintomo, ma: “ … si considera riuscita una terapia quando: a) il comportamento del paziente designato appare profondamente modificato e b) la famiglia si è riappropriata del proprio tempo evolutivo e il paziente designato non ha più la funzione di bloccarlo, ponendosi al centro dell’esistenza stessa del gruppo”.

Mariano Lizzadro


L’ispirazione, le citazioni e tutto quanto sono tratti da: “La Terapia con la Famiglia” di Maurizio Andolfi, ed. Astrolabio e “Tempo e Mito nella Psicoterapia Familiare” di Maurizio Andolfi e Claudio Angelo, ed. Bollati Boringhieri

 

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