Immagine convessa di Vincenzo D’Alessio

Immagine convessa, Vincenzo D’Alessio, Fara Editore 2017

Quest’ultima raccolta di Vincenzo D’Alessio si apre con l’immagine di copertina e la dedica in esergo al figlio Antonio, prematuramente scomparso all’età di 32 anni, e già questo dispone il lettore ad un ascolto di attenzione e protesione, tra i versi di un linguaggio assolutamente lirico, che nella sua naturale inclinazione dialogica e interiore, raggiunge momenti poetici davvero intensi e suggestivi.

Quante volte
sono sceso in questo
mare millenario
non mi hai sentito?

Quante volte
ho pregato che non
provassi il dolore
dell’abbandono della terra
la paura dell’abisso

Quante volte
ho tentato di amarti
ma non capivi
gli occhi, gli occhi
li hai guardati?

Sono simili ai tuoi
non hanno da offrire pace

(p.11)

Quelle di “Immagine Convessa” sono parole essenziali, dall’andamento rapido, ma incisivo, che si muovono nel loro accostamento per richiami, sensazioni o immagini, su più piani dialettici. Sono parole dettate dall’urgenza del dire e dal bisogno di intessere un dialŏgus con l’altro, per esprimere un sentire o un’idea, come appare evidente nelle numerose dediche ai testi presenti nella raccolta. Si muovono a cerchi concentrici e scandagliano una realtà incomprensibile e sacra, ma anche ineluttabile e implacabile, fonte talvolta di rivelazioni dolorose, di tremori furtivi, di contemplazione o di segreti sottesi.

Ripenso
le mani di mia madre
viola nell’acqua della fontana
la forma del sapone poggiata
nel legno fradicio del mastello
il vento scostava la neve
dai salici in piedi
sulla sponda del muro,
tremo nel vuoto della lavatrice
muta

(p.19)

Ai luoghi interiori dell’anima fanno da contrappunto i luoghi fisici e concreti del vissuto: l’Irpinia, i paesi e le terre assolate del sud, in cui si alternano resistenze e cambiamenti, ferite e rinascite, pazienza e adattamento, ma anche rabbia e impotenza  “Dio maledica/ la terra dove/ non si affrancano/ i contadini dall’ignoranza (p.17)”. L’occhio della memoria è sempre vigile, sia quella individuale, sia quella collettiva di un popolo che ha smarrito l’orientamento, la forza del ricordo e delle proprie radici. Una memoria che per il poeta non è e non rappresenta fossilizzazione, bensì corrispondenza e coincidenza con la voce del cuore e della tradizione, di un passato (ri)pulito, innocente, più onesto). Un passato che è (di)segno della quotidianità, delle piccole cose immutabili che vivono perenni tra terra e cielo.

Non scrollatemi la neve
dalle spalle rinasco
nei faggi d’alta quota
nel suono dei cinghiali
che frugano dove
cadono frutti tra le foglie.

Godo del mio vestito nuovo
cuore che nasce tra rami
fremo nelle acque clandestine
mi dono al sole
nella nebbia del mattino.

Che vuoi?
raccogli il fascio secco
incendialo al focolare
il sibilo della fiamma
è la mia anima

(p.26)

Il suo impegno appare quello di ritrovare un’unità col creato, di fondere in un tutt’uno ciò che si disgrega e si sbriciola. Ciò che conforta è la continuazione misteriosa della vita. L’esistere, nonostante tutto, nel grande mistero della vita.

San Severino Lucano, 16 luglio 2016

Maria Pina Ciancio

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