
Piccole riflessioni su “Mio padre racconta… il Novecento“
Del bellissimo libro di Teresa Armenti si rimanda alle splendide considerazioni già espresse da Maria Pina Ciancio su Lucaniart ed aggiungerei un paio di considerazioni mie. La prima è la questione della lingua usata da Teresa Armenti. Nel libro, che è percorso dalle vicende autobiografiche del padre della “nostra” autrice e che quindi diventa un’occasione per raccontare il secolo scorso a partire dalla fanciullezza di quest’ultimo, passando attraverso la prima guerra mondiale, l’avvento della dittatura fascista, la seconda guerra mondiale e il dopoguerra, appunto Teresa Armenti usa parole semplici e concetti di facile comprensione. Di conseguenza a primo acchito è una lettura scorrevole e molto piacevole. La lettura di “Mio padre racconta … il Novecento” scorre via veloce e questo è un pregio, avere il dono di scrivere appassionando il lettore non è cosa da tutti. Parlerei di leggerezza e di consapevolezza e quindi scelta. La scelta di Teresa Armenti è quella appunto di usare una lingua chiara, oserei dire “diretta” per evitare da un lato di restituire a noi lettori un artefatto intelletualistico, ma soprattutto per restituirci la lingua del padre. I fatti narrati in questo meraviglioso libro sono dunque un omaggio al padre Felice. E allora qual è il modo migliore per ricordarlo se non quello di restituire al lettore la lingua con cui si esprimeva? È una scrittura fresca, ma allo stesso tempo calda, ci fa immergere in un mondo passato che è diventato memoria storica. È ancora vivido appunto attraverso i racconti che molti di noi abbiamo avuto la fortuna di poter ascoltare dinanzi ad un nostro vecchio e magari davanti ad un camino acceso, come la stessa Teresa Armenti È una lingua quella di Teresa Armenti sincera e fedele a se stessa, un linguaggio unico e umile nel senso più elevato del termine. Una lingua a modo suo in grado di sparigliare le carte in tavola. Poi un’altra considerazione è relativa all’irriducibilità del padre di Teresa. Dal punto di vista umano mi immagino quest’uomo di CastelSaraceno come un instancabile lavoratore, un bracciante coraggioso, un uomo a modo suo temerario ma anche scaltro. Dotato di quella scaltrezza che appartiene a chi ha dovuto fin da bambino difendersi dalle insidie della vita. Un uomo lucano “vecchio stampo” forte e tenace come una quercia del Pollino, pianta antichissima, fortemente radicata e ben salda alla terra. Un grande camminatore. Un uomo duro ed affettuoso al contempo, duro perché ha dovuto ben presto adattarsi alle difficoltà della vita ma affettuoso e giusto, a modo suo, nei confronti della figlia e degli altri. Un essere umano orgoglioso e fiero, come lo sono spesso gli uomini e le donne della Basilicata.
Mariano Lizzadro